Niente di quello che amiamo, sperimentiamo o proviamo, avviene per caso.
Ci sono messaggi nascosti e benevoli che ci portano a crescere, perché tutto possiede, oltre a una dimensione ordinaria, una dimensione simbolica.
Così oggi, mentre rispondevo a una mail per indicare alcune suggestioni di lettura che potrebbero avvicinare all’universo della green mindfulness, ho pensato che ogni tanto mi piacerebbe scriverne sul blog, per condividere alcuni stimoli alla lettura che a me hanno aperto passaggi interiori, con la speranza possano fare intraprendere un viaggio anche a voi.
Per farlo, devo partire da lontano sia dal punto di vista dell’autrice, che della mia storia personale.
La prima lettura che infatti mi viene spontaneo proporre, perché probabilmente è una delle prime che ho incontrato nel mio percorso di avvicinamento alle pratiche di silvoterapia, è di Pia Pera.
Ho seguito le sue opere innamorandomene follemente fin da subito, da quella prima lettura de “l‘orto di un perdigiorno” nel quale trovavo semplice riconoscermi, perché
È tra le piante che Pia Pera sente di aver trovato il suo posto nel mondo, di essere dove esattamente dovrebbe essere, forse “per la più primordiale delle complementarità, quella tra animale e pianta, tra creature specularmente opposte, che si nutrono l’una del respiro dell’altra” (in Giardino e ortoterapia, 2010).
Poco tempo dopo, una mia cliente (perché all’epoca lavoravo ancora in un Hotel all’Isola d’Elba dove, tra l’altro, coltivavo già la mia passione per il verde proponendo molte esperienze in Natura) mi regalò un altro libro di Pia Pera: “Giardino e orto terapia” (un gesto profetico, potremmo dire oggi).
Da entrambi i libri ho tratto profonde ispirazioni, cogliendo le sottili e profonde similitudini che corrono tra la nostra mente e la terra.
Avete mai fatto l’esperienza comparativa di sradicare le infestanti in una aiuola da tempo lasciata incolta e in una di cui regolarmente vi prendete cura?
Nel caso lo abbiate fatto, probabilmente vi sarete resi conto che nel terreno coltivato le infestanti vengono via al primo strappo, viceversa nell’altro terreno potreste fare molta più fatica.
Un terreno lavorato per anni, perde la durezza originaria, viene nel tempo alleggerito da svariate pacciamature che nel tempo rendono il terreno umido, morbido e friabile. Nonostante ciò, le infestanti riescono ugualmente ad attecchire, è nella natura delle cose, ma al tempo stesso vengono con più facilità sradicate.
Qualcosa di simile avviene nella nostra mente, quando ce ne prendiamo cura e le dedichiamo la nostra attenzione: i cattivi sentimenti è possibile che continuino ad affiorare, considerato che nell’animo umano convivono energie di ogni genere, ma la tempo stesso avranno meno probabilità di proliferare e di aprirci la porta alle emozioni distruttive.
Quello che accade cioè nel tempo, a forza di prendersi cura del proprio giardino-mente, è che pensieri negativi inizieranno a transitare, attraversandoci ma senza trovare le giuste condizioni per prosperare indisturbati.
Mente e terra, entrambe vive, vengono quindi coltivate in modo analogo, conoscono tempi simili (da qui la necessità di andare in Natura anche per rinforzare un collegamento con i cicli delle stagioni) e abbisognano di una simile attenzione nell’essere coltivate.
Al pari della terra, anche la mente non potrà essere sistemata “una volta per tutte”, ma richiederà un paziente e continuo esercizio di cura, rispetto e osservazione per mantenerla duttile, fertile, nutriente e in buona salute.
Per entrare in relazione con un giardino di frutta e fiori, ortaggi e alberi, occorre connettersi a quella forma di ordine sottile che tiene insieme la “rete della vita”.
Accorgersi della bellezza di un tasso barbasso, e di anno in anno, lasciarlo dove decide lui.
Non aggredire la terra, non disporre in parata militare le piante, ma vivere e lasciarle vivere. Solo allora il lavoro in giardino darà un senso di pace , e nell’orto, oltre al cibo, si coltiverà anche la pace interiore.
Anima e terra sono entrambe vive.
E delle cose vive non si può mai smettere di prendersi cura.
Lavorare in giardino, non serve solo all’anima, né a calmare la mente. Poco a poco questa attività affina anche lo spirito, lo libera da scorie e storture, preparandolo ad aderire a una nozione più complessa e duttile di sistema, all’interno del quale l’uomo e la Natura, vivono in un rapporto di profonda e intima interdipendenza.
Ho continuato a leggere Pia e a seguirne le riflessioni all’ombra dei ciliegi, fintanto che la vita ha giocato le sue carte: quando io tornavo nel casolare di campagna della mia infanzia a pochi chilometri da Lucca, dove Pia abitava, desiderosa di incontrarla, lei se ne andava, lasciando un ricco e commovente testamento di pensieri e intuizioni nati negli ultimi mesi del suo vivere in Natura e contenuti nell’emozionante libro: “Al giardino ancora non l’ho detto“.
Se all’inizio mi prendevo cura del giardino, compiendo in piena autosufficienza tutti i lavori, adesso debbo prendermi cura di me stessa. Il tempo prima impiegato potando, scavando buche, bruciando frasche, zappando, falciando l’erba, adesso mi viene rubato dalle cure necessarie a mantenere me stessa in vita. Quasi fossi diventata io il giardino. A lavorare chiamo i giardinieri. Mi aggiro col bastone e indico il da farsi, con la sensazione di essere diventata simile alla vecchia principessa Greta Sturdza, come si vede in una delle foto del libro sulla sua tenuta normanna del Vasterival.
Non sono più la stessa persona. Alla diversa andatura, alla lentezza nel camminare, la circospezione con cui procedo di passo in passo, la cautela con cui considero se valga davvero la pena di muoversi o no, corrisponde una percezione nuova del mondo. Credo che adesso non proverei più lo stesso stupore misto a diffidenza di fronte alle opere di un’artista scandinava che, anni fa, venne a trovarmi nel mio podere. Mentre passeggiavamo, non faceva che chinarsi per raccattare frutti rinsecchiti, foglie appassite, baccelli anneriti dalle intemperie. Bah! avevo pensato tra me, al giorno d’oggi qualsiasi gesto passa per arte. L’avevo lasciata fare, per nulla convinta in cuor mio della qualità o anche solo del senso del suo lavoro. E del tutto indifferente alle sue «ruberie»; dopotutto, quello che raccattava era spazzatura: frutti marci, fiori sfatti, qualsiasi cosa non avesse più corso, uso di mondo.
C’è voluto tempo per cominciare a capire. Non immaginavo tuttavia che, ben presto, mi sarei percepita anch’io come quelle povere cose raccattate, al punto d’incontro tra due energie: conservazione e distruzione. Organismi in decadenza, in bilico tra essere e non essere. Chissà che un momento prima di venir meno non si manifestino, con intensità forse acuita, se non vera e propria bellezza, un pathos, un’espressività insospettati. Quasi che, rendendo l’anima a Dio, le cose sprigionassero, per un attimo e quell’attimo soltanto, una qualità che passa inosservata quando il corpo, godendo perfetta salute, è troppo turgido, troppo opaco, troppo spesso. Troppo materiale.
Adesso che mi sento come uno di quegli scarti, provo una serenità diversa, una serenità per la prima volta vera e profonda. Sprigiona adesso che il corpo ha perso un poco del suo spessore.
La leggerezza interiore nasce forse dal sentirmi libera dalla zavorra terribile del futuro, indifferente al cruccio del passato. Immersa nell’attimo presente, come prima mai era accaduto, faccio finalmente parte del giardino, di quel mondo fluttuante di trasformazioni continue.
(Al giardino non l’ho detto) Pia Pera.
Eppure, ogni volta che pulisco un’aiuola, ho come la sensazione che lei sia accanto a me.