
La visione sapienziale orfica, si radicava sulla asserita ‘certezza’ (conseguita attraverso esperienze iniziatiche) che nel corpo dell’uomo ‘abita’ un’anima immortale, capace sin da ‘viva’ di conoscere il mondo divino da cui proviene e a cui tende a ritornare dopo la Morte.
Conoscerla, significava per l’uomo affrancarsi dal corpo, dai suoi limiti, dalle sue passioni, dalla sua cieca e abbrutente concupiscenza, per aprirsi a un viaggio di conoscenza volta a riconoscere il seme divino che era in lui.
Con l’Orfismo, l’immortalità sino ad allora concessa solo a quei pochi che, sotto la spinta di atti eroici, potevano valicare l’abisso della caducità umana, divenne accessibile a tutti.
La tradizionale concezione greca, a partire da Omero, riteneva infatti l’uomo mortale. L’orfismo, invece, proclamò l’immortalità dell’anima e concepì l’uomo secondo lo schema dualistico che contrappone il corpo all’anima.
L’anima, per la colpa originaria compiuta dai Titani, che uccisero e mangiarono Dioniso, “cadde” in un corpo ed è destinata a reincarnarsi in corpi successivi, attraverso una serie di rinascite, per espiare quella colpa.
La vita orfica, grazie a particolari riti, pratiche religiose e precetti alimentari (si raccomanda ad esempio l’assoluta astensione dal cibarsi di carne) è la sola in grado di porre fine a questo ciclo e di liberare l’anima dal corpo: la purificazione dell’elemento divino da quello corporeo (il “dionisiaco” dal “titanico”) diventa quindi il vero scopo del vivere.
Una concezione, quella orfica, rivoluzionaria che ha cambiato la visione del percorso esistenziale e ha rovesciato la concezione di vita al punto da fare affermare ad Euripide: “Chi sa se il vivere non sia morire e il morire invece vivere?”.
L’uomo con l’Orfismo ebbe un imperativo immediato: vivere una vita conforme alla Legge universale o divina. A tutta l’umanità era data la responsabilità del proprio destino.
Coerenti a tali principi, gli Orfici praticavano una vita di estremo rigore etico e morale, perché lo spirito potesse mantenersi puro tra le tentazioni, le deviazioni, gli inganni della vita terrena.
Si riunivano in convegni riservati ai soli iniziati; ripetevano i miti delle antiche teogonie; discutevano ed approfondivano il problema dell’esistenza e della beatitudine eterna, che essi ritenevano di poter conseguire tra i boschi ed i prati di Persefone, in una perenne primavera e in un contatto intenso e diretto con la natura tutta.
Agli stessi principi rivolgevano l’estremo pensiero in punto di morte. In quegli ultimi istanti, il richiamo più angoscioso veniva espresso al morente, perché l’anima staccata dal corpo, dissetandosi alle acque salvifiche del lago di Mnemosine, le avrebbe dato facoltà di presentarsi a giudizio pura, come appartenente a stirpe celeste.
A conferma dell’esistenza di questa “via per la liberazione” riservata a chi fosse in grado di percorrerla, vi sono i ritrovamenti archeologici di alcune laminette d’oro, dimostratesi orfiche, rinvenute in alcune necropoli, il cui testo dice:
“E tu troverai a sinistra della casa di Ade una fonte e ritto ivi presso un cipresso bianco, a questa fonte tu neppure ti accosterai da presso; un’altra ne troverai fluente acqua fresca dal lago di Mnemosine (la dea della Memoria); guardiani vi stanno dinanzi. Dirai: <Figlio di Gea sono io e di Urano stellato, e celeste è la mia stirpe, e ciò pur voi sapete. La sete mi arde e mi consuma; or voi datemi subito della fresca acqua scorrente dal lago di Mnemosine>. Ed essi ti lasceranno bere alla fonte divina ed allora tu in seguito regnerai con gli altri eroi”
E’ interessante notare che agli iniziati venisse chiesto di dire che erano figli “della terra e del cielo”, ossia della natura riconoscendo in essa il loro principio e il loro fine, la missione della loro anima.
Questi non si presentavano dunque come figli di un sistema politico e sociale, ma come espressione del cielo e della terra, in connessione con ogni singolo essere vivente, espressione della natura di cui si facevano in un certo senso guardiani. Solo dando questa risposta, agli iniziati era concesso di bere l’acqua di Memosyne, capace di ispirare, donare vigore, energia e liberazione.
Nella foresta interiore che siamo chiamate e chiamati a esplorare attraverso un attento lavoro di crescita personale e spirituale, impariamo che la dimensione di sonno e di veglia sono intimamente intrecciate e che ognuna alimenta l’altra su un continuum di esperienze. Così facendo, impariamo a essere svegli e dormienti allo stesso tempo, ereditando la saggezza orfica anche grazie all’ispirazione poetica a lui concessa.
Un’ispirazione, quella orfica, capace di farci ritrovare la connessione con il divino, i misteri di una natura che racchiude senso e scopo delle nostre esistenze e alla quale dobbiamo imparare a tornare a rivolgerci per guarire il nostro “mal d’anima” e ritrovare l’interezza perduta, tornando a “ricordare” come i misteri orfici ci insegnano.
La foresta interiore è un luogo magico, dove conscio e inconscio si incontrano e tornano a parlare la lingua di natura, mentre noi teniamo fede all’intimo impegno che abbiamo contratto venendo al mondo: crescere, evolvere, diventare più “capaci” di contenere e metabolizzare esperienze
Per approfondimenti:
G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol. 1
Otto Kern, Orfici: frammenti e testimonianze