
Vedi, noi sappiamo quello che tu insegni: che tutte le cose eternamente ritornano e noi con esse, e che noi già fummo mille volte, e tutte le cose con noi.
Tu insegni che esiste un grande anno del divenire, un anno fuor d’ogni limite grande, il quale, simile ad una clessidra, deve capovolgersi sempre, per poter scorrere ed esaurirsi. Sicché tutti questi anni sono uguali tra loro, nelle cose più grandi e nelle più piccole. “
F. Nietzsche
Il tempo nasce e vive con l’uomo.
Da una parte è un grande dono, un prezioso amico e consolatore, un balsamo per le ferite che aggiunge chiarezza e capacità di visione ampia delle cose osservate con saggezza e capacità riflessiva.
Dall’altra parte però è un implacabile nemico e persecutore: Kronos continua a minacciare dalla notte del mito.
E’ al tempo come esaurimento, corruzione, senescenza che si vuol sfuggire, vivendo una vita di finzioni e miseria, perché è una vita che ci separa da noi stess* e da tutto ciò che ci circonda, condannandoci all’eterna fuga.
Il tempo spaventa per il suo carattere d’irrimediabilità: non lo temiamo in assoluto tant’è che non temiamo quello ciclico della liturgia, delle grandi feste calendariali, il tempo del mito dell’eterno ritorno; temiamo il tempo storico, quello lineare che per sua natura ha una fine.
Un tempo che ci induce alla fretta, alla ricerca eternamente insoddisfatta della “felicità” mai pienamente appagata, sempre “mancante”, zoppa, imperfetta.
Una felicità che, come un metallo prezioso, sembra esistere solo allo stato impuro e ci invita a imparare ad estrarla, visitando le viscere della terra, scavando, portando in superficie la pietra nascosta per poi bollirla, distillarla, scioglierla e coagularla.
Quest’opera alchemica ci richiama a miti e tempi passati, in un nostalgico ricercare il “paradiso perduto” il senso di unità originaria, fatalmente perduto.
Quasi ovunque queste teorie del “grande tempo” si ritrovano in unione al mito delle età successive, poiché l’”età dell’oro” si trova sempre all’inizio del ciclo.
Secondo Eliade, che ha dedicato lunghi studi alla dottrina universale dell’Eterno Ritorno, miti come quelli collegati all’inizio dell’anno, all’allontanamento dei demoni del vecchio anno, allo spegnimento e alla riaccensione cerimoniale dei fuochi, alle processioni con le maschere, ai baccanali carnevaleschi e alle orge, sarebbero di derivazione agricola.
Tutti questi miti sono infatti incentrati sul valore mitico e simbolico della vegetazione e della sua rinascita, che in sostanza vennero esteriorizzati in una serie di riti e usanze collegati con il cosiddetto “tempo sacro”, scandito dagli eventi celesti.
Fin dalla notte dei tempi l’uomo ha infatti scrutato il cielo, vedendo in esso un grande corpo in movimento, molto simile a un essere vivente.
Alzando il naso all’insù, questi ha potuto ben rendersi conto di come gli astri non stessero fermi, ma fossero in continuo, benché lento, movimento.
Di certo, una tale “anima del mondo” deve essere apparsa straordinaria agli occhi sgomenti dei nostri padri, che non sapevano spiegarsene il motivo e si trovavano nella completa impossibilità di governarne il corso.
Gli uomini osservavano, e le stelle passavano, silenziose e indifferenti; il sole sembrava ogni anno “morire” e poi “rinascere”; mensilmente, la faccia della luna si oscurava per poi tornare a splendere.
Grazie alla rivoluzione del sole, la vegetazione morta rifioriva e dava il grano e la vite per il pane ed il vino, in accordo al ciclo mensile della luna la donna aveva il proprio ciclo mestruale, che ne testimoniava la fertilità. I nostri padri ruotavano sul tempo, anziché sullo spazio, come facciamo noi, che il tempo ciclico abbiamo del tutto obliterato.
Ma per gli antichi, non poteva esistere tempo senza cielo.
Dice Platone (Timeo, 38 c): “Il tempo, dunque, ha avuto origine insieme con il cielo”.
Non si capirebbe, altrimenti, come mai il mito attribuisca Kronos la qualità di figlio a Urano.
È il cielo l’oggetto venerabile degli antichi: esso è il custode del tempo, ossia dell’ordine, poiché rispecchia l’anima universale, la cui vita è il numero e la proporzione.
Un’anima da ricercare, a livello intuitivo, come qualcosa da smascherare nella fitta rete di pensieri, convinzioni e sentimenti che abitano il quotidiano e che rende evidente che la vita profonda si attinge dal pozzo del passato, perché è più vivo ciò che è più remoto nel tempo.
La natura e i miti si fanno contenitori di storie e antiche saggezze e anche in questo esercitano il loro indiscusso potere ecoterapeutico, riaccompagnandoci “a casa”, in un lento viaggio al centro di noi, tra storie e leggende, culti e riti che tornano ad apparentarci con il tempo circolare, il tempo dell’eterno ritorno dentro cui si colloca il nostro personale ritorno alla nostra anima smarrita.
Un’anima, la nostra, preda di Kronos e dei fantasmi che questo genera.
Un’anima perennemente rapita dall’illusoria fuga che ci condanna a vivere una vita da clandestini di noi stessi, mai del tutto nei nostri panni, mai del tutto presenti ma sempre accerchiati, braccati da un tempo che nel suo scorrere ci allontana dall’essere.
Per questo motivo, credo che tornare a celebrare, festeggiare ritualmente i passaggi e le soglie del tempo ciclico, possa sostenerci nel viaggio di crescita e ascolto profondo, mentre tentiamo, ognuno per sé e in interdipendenza con tutto il resto, di “tornare a casa”.
Per approfondimenti:
A. Cattabiani “Lunario”
F. Cardini “I giorni del sacro”
M. Eliade “Il mito dell’eterno ritorno”
G. Hancock “Impronte degli dei”
F. Nietzsche “Così parlò Zarathustra”
Platone “Timeo”