Ormai è sazio di ferite e di cielo. Si chiama uomo. Si chiama donna. È qui nel celeste del pianeta – dice mamma. Dice cane o aurora. La parola amore l’ha inventata intrappolato nel gelo.
Perso. Lontano. Solo. L’ha scritta con ditate di rosso in un silenzio caduto giú dalla neve.Le giovani parole- Mariangela Gualtieri
Le parole sono “cose”.
Se mi conosci mi avrai sentito ripeterlo una infinità di volte (sì, fino allo sfinimento, te ne do atto).
Con le parole lavoro spesso e non solo nel creare testi per altri ma anche per accompagnarti in un percorso di auto consapevolezza che ti permetta di cambiare prospettiva.
Spesso quando vieni a fare un percorso di coaching da me, stai attraversando una fase di cambiamento importante nella tua vita.
La cosa di per sé direi che è del tutto naturale (e pure positiva a ben pensarci: adoro le evoluzioni e la natura insegna che tutto è in perenne mutamento).
Il fatto è che può succedere che queste fasi di cambiamento si accompagnino ad un utilizzo poco efficace del linguaggio che crea il tuo stesso malessere.
Intendo dire che le parole che usiamo possono aprirci porte o sbarrarci strade, cristallizzare problemi ingigantendoli e tenendoli al di fuori della nostra reale portata.
Purtroppo in questo non ci aiuta il costume diffuso di attribuire poca importanza alle parole, di badare esclusivamente ai fatti.
Non solo: da un utilizzo poco efficace delle parole, scaturiscono anche fatti poco allineati con le nostre intime intenzioni, in un crescendo di disagi e scollamenti dal senso di realtà.
Il dolore, la paura, la nostra incapacitazione si annidano anche nell’utilizzo delle parole che facciamo, che spesso finiscono con il tenerci piantate alla crisi molto più a lungo di quanto potremmo/dovremmo.
Le parole con cui esprimiamo le nostre difficoltà sono spesso i chiodi con cui ci crocifiggiamo e facciamo in modo di rimanere in uno stato di immobilità emotiva che non ci permette di vedere le opportunità che stiamo ignorando.
Quando stiamo male generalmente ci ostiniamo a cercarne la causa al di fuori da noi. Ci interroghiamo, ci addentriamo in dietrologie spinte e finiamo con il vivere rintanate nel passato che, è noto, non possiamo cambiare.
Cosa fare?
Parlare del problema a volte può significare ingigantirlo, spostando l’attenzione dalla vera causa del dolore, mancando di cogliere la nuova direzione verso cui ti sta portando la vita con questa opportunità di crescita.
In realtà noi soffriamo perché non stiamo esprimendo noi stesse: anziché riconoscerlo e ascoltare cosa questo voglia dirci, ci ostiniamo a trovare cause esterne per questo dolore.
Ecco che anche in questo caso la crisi ci è amica: viene a svegliarci, più solerte di un principe azzurro, offrendoci una preziosa opportunità evolutiva.
Pensaci, ti è mai capitato di iniziare una frase con: “sono disperata perché lui”, “ho l’ansia perché non raggiungo i mie obiettivi”, “ho problemi relazionali perché ho avuto un padre assente” (l’elenco se vuoi continualo tu).
Ecco, in tutti i questi casi stiamo sventolando bandiera bianca.
Stiamo dicendo a noi stesse attraverso un preciso utilizzo del linguaggio, che sappiamo dove risiede il nostro problema e al contempo ci stiamo incapacitando.
Sì, perché il problema in questi casi noi lo stiamo sempre attribuendo all’esterno e stiamo spegnendo le nostre poderose energie personali. Così facendo stiamo rinunciando sistematicamente a metterci in gioco, a fare la nostra parte, a giocare la nostra partita con la vita.
Tutto questo finisce con il devitalizzarci: smettiamo di “sentirci” per paura di soffrire come abbiamo fatto in passato.
In realtà quello che dovremmo imparare a ripetere a noi stessi, è che il dolore non ci distrugge e che le emozioni ci tengono in vita, ci (ri)avvicinano alla bambina ferita che vorremmo proteggere anche con una corazza di parole.
Da questo guazzabuglio di emozioni, sensazioni e pensieri se ne esce dandosi il permesso di fermarsi e di ascoltarsi in primo luogo.
Spesso quello che faccio durante le sedute di coaching è di invitarti ad ascoltarti.
Facciamo un esercizio?
Prova tu stessa, oggi.
Prova anche solo a registrare una conversazione a tavola con tuo figlio, tuo marito, tua madre o un’amica.
Io credo che ogni fase di cambiamento cominci con l’ascolto.
In realtà io faccio iniziare con l’ascolto anche le mie esperienza di digital coaching: sarà mica un’ossessione?
Indovina? Così facendo siamo pronte per formulare il nostro obiettivo 😉
Quindi, quello che puoi fare da oggi per le prossime due settimane è “banalmente” ascoltarti (puoi estendere l’ascolto anche ai tuoi interlocutori ma a me piace sempre iniziare con un primo passo e la palla al centro – di noi).
Inizia a fare caso al tono che usi con le persone e chiediti se esprime quello che senti realmente o se esce in qualche modo distorto (a volte più edulcorato? altre volte più perentorio? chissà).
Osservati. Che espressioni fai? La tua espressione, il tuo gesticolare sono in sintonia con quello che stai dicendo? Sappi che in caso di incoerenza tra ciò che dici e ciò che esprimi con il volto, vince il secondo (per dire).
Poi ascolta proprio le parole che usi. Sono esattamente quelle che hai nel cuore o stai pescando dal mazzo, alla rinfusa?
Se così fosse, prova a prenderti il tempo per sceglierle e se l’abitudine è più veloce della tua intenzione di cambiare, niente panico: inizia con il correggerti.
Non c’è niente di male a correggersi: pensi che tutti siano perfetti e le azzecchino tutte al primo colpo?
Ascoltati, ascolta te stessa, il tuo corpo, le tue emozioni mentre aggiusti il tiro.
Cosa provi? Ci puoi stare dentro questo disagio di resttare mente (e cuore) mentre parli? Come arriva ciò che dici? Cambia l’effetto che fa alle persone? Noti cambiamenti?
Ascolta, respira, osservati… e poi raccontami: sai che amo ascolarti.
Ma soprattutto scrivi. Scrivi tanto, fallo per te stessa: ti aiuta a costruirti un testimone esterno.
Buon viaggio tra le parole, con l’augurio che tu possa innamorartene come è accaduto a me molto tempo fa e ricorda: le parole sono finestre (oppure muri) e non solo tra te e le persone ma anche dentro di te.
Non so tu ma io amo le case luminose 🙂