Hai mai sentito parlare di biblioterpaia?
Con questo termine si allude a una terapia che si ottiene attraverso la lettura di alcuni testi specifici, promuovendo la crescita e lo sviluppo personale attraverso opportunità di conoscenza e consapevolezza.
Rientrano in questo filone i tanti manuali di autoaiuto che si trovano in commercio ma anche a mio avviso alcuni romanzi.
Oggi te ne presento uno, con l’augurio di darti qualche spunto su cui riflettere.
In questo nostro blog-spazio mi piace pensare che ci si scambi tempo e opportunità di crescita condivisa non solo attraverso i temi cardine della mia attività di life coach ma anche grazie a una infinità di piccole epifanie che costellano i nostri giorni regalando loro senso.
Mi muove, forse lo sai già, il principio di utilità.
Se una cosa è utile per me, condividerla mi fa pensare che forse potrebbe esserlo anche per te (e viceversa, per cui ti invito a darmi tutti i consigli che ritieni validi: sono ghiotta di storie e di esperienze altrui).
Ma dicevamo del libro, che oggi è “L’uomo dei dadi” di Luke Rhinehart.
Si tratta di un libro dalla storia misteriosa: apparso negli anni settanta, è letteralmente scomparso dalla scena per oltre 25 anni, per poi tornare alla ribalta (buffa la vita, eh).
Di che si tratta?
Di quello che che volgarmente potrebbe essere definito un “bad trip”, un manuale di sovversione che potrebbe riguardare tutti noi, nessuno escluso.
La storia narra del quotidiano di un affermato psicologo newyorkese (che guarda caso porta il nome dell’autore del libro).
Luke è quello che potremmo definire un figo: un uomo realizzato e stimato, una moglie incantevole, due figli, tranquillità economica. Una vita placida e desiderabile, insomma, tra sedute psicanalitiche a sadomasochisti e pedofili, affetti familiari e ricerche accademiche sulla libertà sessuale (che fai, desidererai mica qualcos’altro?).
Tutto bene quindi, peccato che il protagonista si senta incastrato in una vita banale che vive al largo delle sue possibilità.
Decide così, per gioco, di iniziare a lasciare che le scelte della sua vita le faccia un dado.
Si, hai capito bene: inizia a delegare al cubo a sei facce la direzione da dare alla sua vita, uscendo dallo schema.
Il romanzo è un crescendo incalzante di colpi di scena, momenti di comicità esplosivi, illuminazioni imprevedibili che ci costringono a rimettere in discussione il nostro modo di intendere la vita.
L’assunto teorico è semplice: esasperando le teorie freudiane Luke descrive la mente umana come un’ accozzaglia di pulsioni in contrasto tra loro, imbrigliate dalla vita in società.
L’unico modo affinché l’uomo realizzi se stesso è, secondo l’autore, sfogare ogni pulsione, anche la più perversa, senza ascoltare il proprio ego sociale. Si tratta di uccidere la personalità, insomma, e il modo migliore per farlo è vivere a caso.
Cosa mi ha colpito di questo libro:
La facilità con cui Luke passa dal ruolo dello stimato e un po’ invidiato professionista di successo, razionale, sempre capace di dominare emozioni e stati d’animo affinché rientrino perfettamente nel “personaggio”, all’uomo che si lascia investire, senza alcuno scrupolo, dalla forza primordiale degli impulsi.
Una facilità che, bada bene, riguarda tutti noi.
I novantasei brevi capitoli scorrono veloci, alternando esplosioni comiche e delitti raccapriccianti, sesso spinto e aneliti rivoluzionari.
In noi vive un universo mondo di fantasie, spinte contrastanti che creano vere e proprie eruzioni magmatiche di desideri e istintualità spesso repressa e pertanto foriera di disagi latenti.
A questo proposito scrive:
A tre o quattro anni i bambini sono perfettamente in grado di essere buoni o cattivi, americani e comunisti, studenti e poliziotti. Ma via via che la cultura li plasma, ciascun bambino finisce per insistere in un solo ruolo: deve sempre essere un bravo bambino o, per ragioni altrettanto impellenti un bambino cattivo e ribelle. La capacità di giocare, di identificarsi con entrambi i gruppi di ruoli è perduta: il bambino ha cominciato a capire cosa ci si aspetta che sia.
Coerenza, schemi, comportamenti facilmente etichettabili sono le prime prigioni in cui rischiamo di rinchiuderci se e solo se smettiamo di riconoscere il gioco delle parti in cui ci confiniamo, ci abituiamo alla quotidiana danza dei ruoli che ci invitano a “tagliare i ponti” con l’altra natura, a vivere perennemente con la “faccia al sole”.
Insomma, ben venga la “faccia al sole” ma ricordiamo che ne abbiamo una anche in ombra e iniziamo a prendercene cura, pena il rischio di attribuire la nostra ombra ad altri e di vivere incastrati in un ruolo che non esprime la nostra essenza ambivalente.
In questo invito a ricucire strappi e tagli che ci siamo autoinferti crescendo e aderendo a un ideale socialmente costituito, c’è a mio avviso anche un invito a fare qualcosa di concreto anche per gli altri, nel quotidiano, in qualità di genitori ad esempio (ok, ogni riferimento al mio essere mamma non è puramente casuale, contenta?).
Rhinehart lo afferma chiaramente quando scrive:
E se tirassimo su i nostri figli diversamente? Se li premiassimo per ogni variazione di abitudini, gusti, ruoli? Per essere stati incoerenti? Potremmo imporre loro la disciplina di essere mutevoli, coscienziosamente incoerenti, sistematicamente liberi da abitudini.
Da questa piccola autorizzazione quotidiana può passare una poderosa rivoluzione, una preziosa occasione di libertà: è bene che ne lasci traccia scritta.
E tu? Hai voglia di piccoli gesti di ribellione creativa? Suvvia, non lasciarmi sulle spine: racconta 🙂
Se hai voglia di approfondire il concetto di Ambivalenza, mutuato da Melanie Klein e di scoprire perché questa fa bene all’Amore, ti invito a guardare questo video pubblicato su l’Internazionale.