
Non avere punti di riferimento è l’esperienza della solitudine suprema.
Si chiama anche illuminazione.
Pema Chödrön ci ricorda che nella via di mezzo, non esiste un punto di riferimento e che sperimentiamo continuamente l’assenza di appigli.
La mente senza punto di riferimento non si risolve da sola, non si fissa e tantomeno afferra.
Non avere alcun punto di riferimento significa cambiare una risposta abituale radicata al mondo: volerlo fare funzionare in un modo o nell’altro, per aprirsi totalmente alla complessità del mondo.
Quando non andiamo a sinistra o a destra, ci sentiamo come se fossimo in un centro di disintossicazione.
Siamo soli, al freddo, in contatto con tutta la spigolosità che abbiamo cercato di evitare andando a sinistra o a destra.
Questo momento nell’esperienza della crescita personale di ognuno di noi, può sembrare piuttosto pesante. Tuttavia, anni e anni di ripetuto e ostinato spostarci a sinistra o a destra, andare sì o no, andare a destra o sbaglio, non hanno mai cambiato nulla: tanto vale provare l’esperienza.
Agire sotto la spinta della ricerca di una (illusoria) sicurezza non ha mai portato altro che gioia momentanea destinata a sfumare e a generare altri bisogni frustrati.
Una gioia effimera che somiglia al nostro cambiare la posizione delle nostre gambe in meditazione. Quando iniziamo ad avvertire il dolore nel tenere sempre una stessa posizione, la mente ci invita insistentemente a cambiare posizione, per trovare sollievo.
Così facendo sperimentiamo dentro di noi una voce che dice: “Accidenti! Che sollievo!” Ma due minuti e mezzo dopo, vogliamo spostar di nuovo le gambe perché il dolore torna a bussare.
Continuiamo a muoverci per cercare piacere, cercare conforto e la soddisfazione che otteniamo è di breve durata e genera sempre nuovo desiderio da appagare.
Il processo che ci aiuta a liberarci da questa posizione di stallo, in cui siamo perennemente scacco delle nostre sensazioni e del proliferare della nostra mente, richiede un enorme coraggio, perché sostanzialmente stiamo cambiando completamente il nostro modo di percepire la realtà.
Sentiamo molto parlare del dolore del samsara e anche della liberazione, ma non si parla altrettanto diffusamente di quanto sia doloroso passare dall’essere completamente bloccati all’abitare la nostra radiosità interiore, con agio.
E’ un cambiamento radicale: è come se stessimo chiedendo al nostro DNA di cambiare il suo codice, è qualcosa che si impasta nella chimica di cui siamo fatti e che genera profondi mutamenti..
Si tratta di annullare un modello che non è solo il nostro modello: è il modello umano attraverso il quale proiettiamo sul mondo una miriade di possibilità per raggiungere la risoluzione dei nostri conflitti.
Possiamo avere denti più bianchi, un prato senza erbe infestanti, una vita senza conflitti, relazioni sempre appaganti, un’auto sempre nuova in garage e la possibilità di fare vacanze da sogno ogni anno.
Possiamo vivere felici e contenti. In un mondo di plastica.
Il problema è che questo modello ci mantiene insoddisfatti e ci provoca molta sofferenza.
Meritiamo di riappropriarci del nostro diritto di nascita, che è la via di mezzo, uno stato mentale aperto che può rilassarsi anche nel mezzo di paradosso e ambiguità.
La via di mezzo ci incoraggia a risvegliare il coraggio che esiste in tutti senza eccezioni, inclusi te e me.
La via di mezzo è spalancata, ma è difficile, perché va contro un antico schema nevrotico che condividiamo tutti, perché quando ci sentiamo soli, quando ci sentiamo senza speranza, ciò che vogliamo fare è spostarci a destra o a sinistra.
Non vogliamo sederci e sentire ciò che proviamo. Non vogliamo passare attraverso la disintossicazione e il sentire tutta la ruvidezza e il dolore da cui siamo stati bravi a scappare.
Eppure la via di mezzo ci incoraggia a fare proprio questo.
Ci incoraggia a risvegliare il coraggio che esiste in tutti senza eccezioni, inclusi te e me e lo fa invitandoci a fermaci, a meditare.
La meditazione ci fornisce un modo per allenarci a metà strada, rimanendo sul posto. Siamo incoraggiati a non giudicare ciò che sorge nella nostra mente.
In effetti, siamo incoraggiati a non cogliere nemmeno ciò che sorge nella nostra mente.
Ciò che di solito chiamiamo buono o cattivo, semplicemente lo riconosciamo come pensiero, senza tutto il solito dramma che va di pari passo con il giusto e lo sbagliato.
Con la meditazione ci viene chiesto di far andare e venire i pensieri come se toccassero una bolla con una piuma.
Questa semplice disciplina ci prepara a smettere di lottare e a scoprire un nuovo stato di essere imparziali.
L’esperienza di alcuni sentimenti può sembrare particolarmente fastidiosa e può attivare il nostro desiderio di andare a destra o a sinistra.
Sto parlando di solitudine, noia, ansia.
A meno che non possiamo rilassarci con questi sentimenti, è molto difficile rimanere nel mezzo quando li sperimentiamo.
Vogliamo vittoria o sconfitta, lode o colpa.
Ad esempio, se qualcuno ci abbandona, non vogliamo stare con quel disagio crudo e per riuscirci, evochiamo un’identità familiare di noi stessi come vittima sfortunata. O forse evitiamo l’irritazione che proviamo, addossando alla persona tutta la colpa.
Vogliamo automaticamente coprire il dolore in un modo o nell’altro, identificandoci con la vittoria o il vittimismo.
Quando possiamo riposare nel mezzo, iniziamo ad avere una relazione non minacciosa con la solitudine e sperimentiamo una sorta di solitudine rilassante e rinfrescante che capovolge completamente i nostri soliti schemi paurosi.
Esistono sei modi per descrivere questo tipo di solitudine che apre all’evoluzione.
Questi sono: meno desiderio, accontentarsi, evitamento di attività inutili, disciplina completa, coltivare una attitudine che non fa divagare nel mondo del desiderio e non cercare sicurezza dai propri pensieri discorsivi.
Vediamoli insieme.
Meno desiderio
Meno desiderio è la volontà di essere soli senza soluzione quando tutto in noi brama qualcosa che ci rallegri e cambi il nostro umore.
Praticare questo tipo di solitudine è un modo di seminare i semi in modo che diminuisca l’irrequietezza fondamentale.
Nella meditazione, ad esempio, ogni volta che etichettiamo il “pensiero” invece di cercare continuamente di scansare i nostri pensieri (con il risultato di dare loro molta energia), ci stiamo allenando a stare qui senza dissociazione.
Quando pratichiamo “meno desideri” con tutto il cuore e coerentemente, qualcosa cambia.
Proviamo meno desiderio nel senso di essere sedotti in modo meno solido dalla nostra brama.
Quindi, anche se siamo in contatto con la solitudine, potremmo allenarci a sperimentare che ogni giorno riusciamo a stare anche solo per 2 secondi seduti a contatto con quella irrequietezza, quando ieri non potevamo sederci nemmeno per uno, sperimentando così i primi passi del “viaggio del guerriero”.
Questo è il percorso del coraggio.
Meno giriamo e impazziamo, più assaporiamo la soddisfazione della fresca solitudine.
Come diceva spesso il maestro Zen Katagiri Roshi, “Uno può essere solo e non lasciarsi trascinare via dalla solitudine”.
Accontentarsi
Non vagare nel mondo del desiderio
Non vagare nel mondo del desiderio è un altro modo di descrivere la solitudine capace di aprirci a nuovi livelli do consapevolezza.
Vagare nel mondo del desiderio implica cercare alternative, cercare qualcosa che ci consoli: cibo, bevande, persone.
La parola desiderio comprende quella qualità di dipendenza, il modo in cui prendiamo qualcosa perché vogliamo trovare un modo per mettere le cose a posto.
Questa qualità deriva dal non essere mai cresciuti del tutto.
Vogliamo ancora andare a casa ed essere in grado di aprire il frigorifero e trovarlo pieno delle nostre prelibatezze preferite; quando il gioco si fa duro, vogliamo urlare “Mamma!”.
Ma quello che stiamo facendo mentre progrediamo lungo il percorso della crescita personale, è lasciare casa e diventare dei meravigliosi senzatetto.
Non vagare nel mondo del desiderio significa relazionarsi direttamente con come stanno le cose.
La solitudine non è un problema. La solitudine non è un qualcosa da risolvere. Lo stesso vale per qualsiasi altra esperienza che potremmo avere.
Non cercare sicurezza dai pensieri discorsivi
Un altro aspetto della solitudine che “apre” è la rinuncia alla ricerca di sicurezza rifugiandosi nei propri pensieri discorsivi.
Non serve nemmeno cercare la compagnia della nostra costante conversazione con noi stessi su come è e come non è, se è o se non lo è, se dovrebbe o se non dovrebbe, se può o se non può.
Con questo tipo di solitudine, non ricerchiamo l’illusoria sicurezza dalle nostre chiacchiere interne.
Ecco perché ci viene chiesto in meditazione di etichettarle come “pensiero”: perché non hanno una realtà oggettiva.
Con la pratica meditativa siamo incoraggiati a toccare quel chiacchiericcio e a lasciarlo andare, senza fare molto rumore per nulla.
Questo tipo di solitudine ci permette di guardare onestamente e senza aggressività alle nostre menti.
Possiamo gradualmente abbandonare i nostri ideali su chi pensiamo di dover essere, o su chi pensiamo di voler essere, o su chi pensiamo che altre persone pensino che vogliamo essere o che dovremmo essere.
Ci arrendiamo e guardiamo direttamente con compassione e umorismo a chi siamo.
Quindi la solitudine non è una minaccia né una angoscia, non è neanche una forma di punizione cui siamo destinati. La solitudine non fornisce alcuna risoluzione, tantomeno ci offre terreno sotto i nostri piedi.
Ci sfida a entrare in un mondo senza punti di riferimento senza polarizzare o consolidare.
Quando ti svegli la mattina e dal nulla arriva il dolore dell’alienazione e della solitudine, potresti usarla come un’opportunità d’oro.
Invece di perseguitarti o sentire che sta accadendo qualcosa di terribilmente sbagliato, proprio lì nel momento di tristezza e desiderio, o potresti rilassarti e toccare lo spazio illimitato del tuo meraviglioso cuore umano.
La prossima volta che ne avrai la possibilità, sperimenta tutto questo, prova a non spostarti né a destra, né a sinistra, mettiti magnificamente al centro e abbandona ogni punto di riferimento.
Resta dove sei, respira: non è magnifico?