In Natura abbiamo tutti la sensazione di essere accettati, senza se e senza ma.

Penetrare l’intrico di rami, radici e foglie, ci fa gradualmente entrare in contatto con una dimensione nella quale non dobbiamo “apparire”, non c’è niente che dobbiamo sforzarci di fare per sentirci accettati e integrati, se non “essere chi siamo”.

Questo straordinario potere terapeutico che la Natura sprigiona automaticamente, è legato a doppio filo alla biofilia, alla sensazione di affetto e intimo legame profondo con un ambiente dal quale proveniamo, che è la nostra “casa”, il nostro rifugio ma soprattutto che è parte di noi.

Ad accorgersene per primo (o meglio a formalizzarlo in una teoria) fu uno sparuto gruppo di ecologisti e psicologi che nei primi anni  ’90 del secolo scorso, si riunì a San Francisco e iniziò a ragionare sul termine “ecopsicologia” (non è buffo? tutto questo accadeva nella città che deve il suo nome al Santo che ha espresso amore e legame profondo per tutte le creature viventi).

In quegli anni, dicevo, Roszak scrisse il suo “Ecopsychology: restorating the Earth, healing the Mind” che ha dato ufficialmente avvio alla corrente dell’ecopsicologia e all’ecoterapia  intesa come un insieme vario di pratiche che traducono”nel fare”, quanto espresso teoreticamente, culturalmente e criticamente dall’ecopsicologia.

Furono anni densi: poco meno di un decennio prima il biologo Edward  Wilson inaugurava il filone della biofilia, mentre in Giappone si inauguravano i primi studi sugli effetti straordinariamente benefici dello shinrin-yoku nella bellissima isola di Yakushima. Da allora  un numero crescente di evidenze scientifiche si sarebbe susseguito a ritmo incalzante, convincendo anche i più scettici del fondamento scientifico di queste preziose pratiche di immersione sensoriale in Natura.

Questo fermento culturale  non avrebbe tardato a evidenziare una assoluta necessità di approfondire la materia e uno stringente bisogno (con quanto sta accadendo oggi, chi si sentirebbe di dire il contrario?) di investire risorse, e competenze varie,  in un ramo del sapere che ci richiede un profondo cambio di paradigma, una rivoluzione culturale, personale e persino spirituale, capace di invertire la rotta di un ossessivo e compulsivo istinto di distruzione e depredazione che minaccia il pianeta tutto.

Nel 1996 Howard Clinebell nel suo “Ecotherapy: healing ourselves, healing the earth“, sottolinea che l’ecoterapia si riferisce a un approccio secondo il quale ci prendiamo cura di noi stessi se ci prendiamo cura del pianeta che, lungi dall’essere un mero palcoscenico sul quale le nostre antropocentriche vite si svolgono, chiede a gran voce di tornare ad avere un ruolo di prim’ordine della nostra esistenza: perché il pianeta siamo noi e noi siamo il pianeta!

In questa prospettiva si capisce come anche a livello clinico gli interventi abbiano da inquadrarsi in un tessuto narrativo che va ben oltre “la storia personale” e che sia capace di guardare alla persona come a un membro di fatto di un ecosistema  vasto, ampio, del quale siamo tutti coautori e  dunque anche guardiani, custodi di un equilibrio che sta lanciando vigorosi gridi di allarme.

Quello che spesso manchiamo di considerare, è che spesso il nostro dolore, la nostra paura,  sono la risposta naturale alla morte di così tante creature viventi.

Non lo consideriamo perché non lo sappiamo: non partecipiamo di una cultura che ci renda capaci di tornare a sentire, percepire, accogliere e integrare i mille legami che ci uniscono gli uni agli altri.

Abbiamo perso il linguaggio di Natura, abbiamo dimenticato che c’è un legame indissolubile tra noi e il pianeta e che ciò che di buono o di cattivo accade all’uno, influenza l’altro e viceversa.

La disconnessione profonda e a più livelli nella quale viviamo immersi, è alla base di gran parte dell’ansia, della depressione, del senso di perdita di scopo nella vita che riguardano molti di noi, se non tutti, a fasi alterne.

Assumere un punto di vista ecoterapeutico, significa tornare a parlare la lingua di Natura, sviluppare una attenzione compassionevole e autenticamente interessata alla persona tutta.

Da questo punto di vista il percorso di crescita personale ha a che fare con l’anima, con le immagini dell’arte, la mitologia, la poesia, l’entrare in intimità con il corpo, l’imparare a convivere con  il fallimento e la perdita, l’ambiguità e la complessità.

Significa tornare a parlare la lingua degli esseri viventi, smettendo di oggettivarli in una visione meccanicistica che ci vuole prestanti, produttivi e, quando preda di disagi vari, rapidamente “riparati” e nuovamente in sella alla ruote del criceto.

Quello che la Natura ci insegna a più riprese quando, attraversando un bosco comprendiamo a un livello profondo e ineffabile che siamo quelle foglie, quei muschi e quei sassi, è che non abbiamo bisogno di sedare il sintomo, mettere a tacere il corpo, costiparci l’anima di emozioni, beni materiali e cibo.

La Natura ci insegna a rallentare e a svuotare, partendo dal presupposto che andiamo bene così come siamo, che c’è perfezione persino nelle sbucciature della nostra anima e che non c’è niente che dobbiamo edulcorare o aggraziare per risultare degni d’amore.

Noi non siamo degni d’amore: noi siamo l’amore stesso,  nel momento preciso in cui smettiamo di affannarci per accaparrarcelo e iniziamo a esprimerlo, irradiarlo, incarnarlo con le nostre scelte, i nostri passi, persino con i nostri silenzi e le scelte coraggiose che a volte sembrano folli ai più ma che non lo sono per il nostro cuore.

“Una volta che abbiamo sperimentato l’amore incondizionato, non possiamo più fuggire. Possiamo correre, ma non nasconderci. il seme è piantato e crescerà a suo tempo.”

Ram Dass

E’ questa la guarigione verso cui siamo tutti chiamati, specie in giorni in cui il dolore, la rabbia, la violenza si acuiscono proprio perché quella rabbia, quel dolore, quella violenza ci riguardano: noi siamo anche quello e l’unica guarigione possibile parte da dentro, da noi stessi, da quanto siamo in grado di riconoscere quelle ombre dentro di noi, tornando ad apparentarci con il mondo tutto e non solo con la porzione presentabile di esso.

Dobbiamo tornare a casa e farlo rapidamente, coscienziosamente, onestamente e da questo punto di vista io sono convinta che l‘ecopsicologia sia una strada utile, efficace, piena di risorse utili e sai perché?

Perché in greco oikos (eco) significa casa, psyche  significa anima e logos parola che è legata alla nostra capacità di narrare.

Dunque, l’ecopsicologia è la storia della casa dell’anima: una storia che ci riguarda e apparenta tutti, che scriviamo e riscriviamo insieme, nella buona e nella cattiva sorte.